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L’imballatrice a mano orizzontale nell’area matesina PDF Stampa E-mail
Scritto da Amministratore   
Mercoledì 27 Maggio 2009 22:28

L’imballatrice a mano orizzontale nell’area matesina

 

 

 

Generalità

Nel 1929, Stefano Pagliari e Giovanni Vitali in Le macchine nell’agricoltura, edito da Unione Tipografico-Editrice Torinese - Torino, definiscono le imballatrici come macchine … essenzialmente costituite da una cassa in legno di forma di parallelepipedo … con le pareti interne a superficie molto liscia … che possono essere orizzontali verticali, a mano o a motore e riferiscono che … tali macchine si sono adottate da tempo, anche prima dell’adozione del motore inanimato, ed il loro azionamento veniva quasi esclusivamente fatto a mano o con maneggio mosso da animali ...

Gli autori poi riconoscevano l’utilità delle imballatrici poiché  … il foraggio compresso … meglio si presta ad essere trasportato … facilita il carico e lo scarico, va meno soggetto ai pericoli dell’incendio, richiede meno spazio di fabbricati per il ricovero ed infine … meglio conserva il suo colore  iniziale, le sue proprietà e il suo aroma …

Nella sezione dedicata alle macchine per l’agricoltura dell’Enciclopedia Agraria Italiana edita sempre nel 1929 da Unione Tipografico-Editrice Torinese - Torino a cura di autori vari, le presse per foraggi vengono divise … in due categorie: presse a cassone che comprimono in blocco il fieno … e presse che comprimono il fieno per falde successive di poco spessore … e vi si legge che già nel 1888 a ogni Direzione di Commissariato di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano vennero destinati alcuni  modelli di quest’ultimo tipo di imballatrice (una Pilter e una Dederick oltre alla locomobile necessaria al loro funzionamento) introdotte in servizio per concorrere alla preparazione dei foraggi compressi per i quadrupedi di truppa.

 

 

Premessa

Tutte le pressaforaggi a mano osservate nell’area matesina sono del tipo orizzontale, della categoria che comprimono il fieno per falde successive.

Di colore arancio, verde, grigio o legno naturale; a due o a quattro ruote; con ruote in ferro o in legno ... la vecchia imballatrice orizzontale manuale è stata una delle macchine agricole protagoniste della fienagione per molti anni in tutta l’area matesina.

Le presse a mano sono macchine dismesse da tempo, laddove non sono marcite sono andate al fuoco e sono sopravvissute solo se non hanno occupato ricoveri utili per altri attrezzi e quindi in ambienti o in vecchi capannoni o casolari in abbandono soprattutto in paesi di montagna.  In ogni paese, tutte le persone anziane ricordano di averla vista, o usata, ne citano i proprietari, le modalità di utilzzo (fitto o prestazione a balletta), e difatti ne sono stati comunque rintracciati vari esemplari esemplari. Le imballatrici superstiti, provenienti  da Castello del Matese, San Potito Sannitico, Alife, Pietraoja, Capriati, sono quasi sempre proprietà di collezionisti. Sono poi stati osservati dei modellini in miniatura riprodotti da atigiani legati al mondo agricolo ad Alife e a Benevento.

 

Materiali e colori:

La costruzione di una imballatrice richiede materiali poveri e di facile reperibilità (legno, ferro, ruote, chiodi, viti a legno, bulloni e dadi) e l’ausilio di attrezzi che ogni fabbro, carrese o agricoltore possedeva (martello, punte monoelicoidali per la foratura del legno, giravite, sega, ascia e qualche chiave).

Per quanto riguarda il legno, che nei casi documentati generalmente si presenta come abete per la camera di compressione e olmo e castagno o quercia per le rimanenti parti, richiede sicuramente un lavoro di falegnameria per la produzione del tavolato e di artigianato per l’assemblaggio. Diverso invece il discorso per quello che riguarda la ferratura (molle spiralate, ruote e altro), che in alcuni elementi si presenta come fusioni in ghisa (boccole per le bielle, congegno a scatto per il blocco del tappo o diaframma che separa una balletta dalla successiva e dispositivo di fine corsa per lo stesso), in altri come prodotti di serie forse destinati anche ad altri utilizzi (molle spiralate …) e in altri ancora come prodotti di fabbri (attacchi per le molle, archi per fissare il palo in legno o ferro, quasi sempre amovibile, che aziona lo stantuffo), infine in altri casi ancora sono prodotti di riciclo (pezzi di balestre per animare i congegni a scatto, aghi per il fil di ferro).

I colori utilizzati per tinteggiare le imballatrici sono smalti in alcuni casi e olio di lino con polveri coloranti in altri e le tonalità vanno dai verdi al grigio, dal color legno naturale al colore arancio ottenuto mescolando polvere di colore arancio all’olio di lino come si faceva per colorare le ruote ed altri elementi del carro dei buoi.

 

Una produzione principalmente artigianale

Questo tipo di attrezzo agricolo non era solo un oggetto dell’artigianato locale, infatti, mentre per alcuni degli esemplari documentati nell’aerea matesina possiamo parlare sicuramente di fattura artigianale locale almeno per quanto riguarda tutto il lavoro di falegnameria e di officina, per due degli esemplari osservati, rimasti per lungo tempo inutilizzati e pervenuti con i marchi delle ditte che le commercializzava, è possibile parlare di produzione in serie. In un caso l'imballatrice prodotta in serie è stata commercializzata o forse prodotto dalla Federazione Italiana dei Consorzi Agrari di Roma. Il tipo di ruote che monta questa imballatrice, fa pensare ad una applicazione posticcia delle stesse e a una riverniciatura della macchina. Un altro caso di imballatrice prodotta in serie è documentato ad Alife. L'oggetto è pervenuto completo e nello stato originale, sia nei colori che nella struttura. La ditta costruttrice, la Costruzioni Meccaniche Macchine Agricole G. Pizzichetti e figli di Viterbo ha utilizzato ruote in legno a 12 raggi cerchiate in ferro e con asse eccentrico. L'asse eccentrico permette all'operatore di poggiare a terra l'imballatrice per l'esecuzione del lavoro senza dover smontare le ruote e di risollevarla sulle ruote quando è il momento di spostarla.

Nel caso invece dell’esemplare che riporta stampigliato su un elemento in ferro un nome e una data (DE MARCO RAFFAELE 1934), possiamo azzardare l’ipotesi di una ditta costruttrice che ha prodotto per più anni esemplari sporadici per un mercato sicuramente locale (più persone in zona portano il nome di  De Marco Raffaele o Di Marco Raffaele, fatto che rafforza l’ipotesi che il proprietario o costruttore fosse del luogo) ma non è escluso che fossero le  generalità del proprietario, cha ha voluto in tal modo assicurarsi contro un eventuale furto. Ciò anche alla luce dell'osservazione di un’altra imballatrice, conservata a Gioia Sannitica e proveniente da Capriati al Volturno, che riporta sritto su un fianco, a vernice bianca, il nome del proprietario e del paese.

Anche se è certo che questo tipo di attrezzo non era solo un oggetto dell’artigianato locale, qualsiasi agricoltore intraprendente che voleva realizzare in proprio una imballatrice, acquistava una parte della ferratura e si faceva produrre da un fabbro la rimanente parte, portava in falegnameria i tronchi necessari per realizzare i segati e quindi tutto il tavolato e poi, con l’ausilio dei semplici attrezzi predetti e presenti in ogni casa, faceva assemblare il tutto da qualche artigiano locale, magari uno dei tanti carresi del territorio.

 

Il funzionamento

Sostanzialmente l’imballatrice manuale funziona come tutte le altre imballatrici e presenta in alto, in testa allo stantuffo, la tramoggia per l’alimentazione (la bocca), che è definita da quattro tavole disposte in maniera un po’ obliqua a formare una sorta di vasca che facilita l’immissione del foraggio. Ovviamente l’alimentazione in questo tipo di imballatrice non può che essere manuale, nel senso che il foraggio viene infilato e pressato a mano fino a raggiungere la camera di imballaggio, generalmente rettangolare, dove è poi lo stantuffo di legno, che scorrendo nella camera in apposite guide e muovendosi di moto rettilineo alternativo, comprime e compatta in forma di ballette il foraggio e ne consente la legatura con il fil di ferro. Sarà poi la nuova balletta che va concretizzandosi nella camera a incalzare e a provvedere all’espulsione di quella già confezionata che ancora vi permane.

 

L’utilizzo

Certamente antecedenti alle più evolute e pesanti imballatrici a testa d’asino che in genere seguivano le trebbiatrici, le piccole imballatrici manuali orizzontali avevano sicuramente una destinazione diversa, erano infatti macchine che venivano utilizzate da piccoli coltivatori che producevano fieno destinato alla vendita, infatti chi produceva fieno per utilizzarlo nella propria azienda preferiva raccoglierlo in alti mucchi intorno ad un robusto palo conficcato nel terreno. Oltre che una soluzione per compattare la produzione e per poterla meglio stipare, l’imballatura era un modo di confezionare il fieno per poterlo pesare e trasportare con più facilità una volta che era stato pattuito il prezzo di vendita a quintale con l’acquirente.

Per mettere in funzione una pressaforaggi manuale occorrono comunque più persone: mentre uno alimenta (civa) la macchina, almeno altre due persone azionano, tirandolo verso il basso e poi lasciandolo salire sotto l’effetto di richiamo dalle molle, il lungo palo che fa da leva e che tramite due bielle in legno spinge lo stantuffo che pressa il fieno nella camera rettangolare contro il tappo che la chiude.

Quando finalmente la camera è piena e il fieno contenuto fra il tappo-diaframma e lo stantuffo è compattato a sufficienza, mentre più persone impediscono allo stantuffo di tornare indietro sotto l’azione della reazione elastica del fieno, con due aghi in ferro si passa il fil di ferro da un fianco all’altro dell’imballatrice, si lega la balletta e si toglie il tappo-diaframma che a fondo corsa ha fatto da tappo della camera, per riportarlo in testa alla camera, appena dopo la tramoggia di alimentazione, per ripetere l’operazione e quindi ripartire con la produzione di un’altra balletta.

Generalmente due chiodi fissati alla distanza di circa 1,5 metri su un fianco dell’imballatrice, servivano come misura per preparare il fil di ferro necessario alla legatura delle ballette. Ad una estremità del fil di ferro, che veniva avvolto da un chiodo all’altro e tagliato a misura, veniva creato un occhiello per facilitare l’operazione di legatura della balla e prima che venisse utilizzato veniva teso ad evitare che cedesse, allungandosi, dopo che la balletta era stata confezionata.

Molti sessantenni attuali da giovani hanno lavorato come operai o in proprio con questa macchina, che è stata utilizzata fino agli anni ’60 … non va dimenticato infatti che in quegli anni dalle nostre parti ancora si lavorava la terra con aratri a traino del tipo a chiodo o in acciaio della casa tedesca Rudolph Sack, con l’erpice in legno, con voltaorecchi della Federazione Italiana dei Consorzi Agrari …

 

Lo spostamento

Quasi sempre con due ruote, l’imballatrice manuale può averne quattro o esserne addirittura sprovvista, a seconda dell’utilizzo che ne faceva il proprietario. Quando veniva utilizzata sempre nella stessa azienda non presentava ruote, il che era sicuramente molto più conveniente, in quanto poggiata a terra era molto stabile e facilitava le manovre di imballaggio. Anche in questo caso veniva trascinata da un luogo all’altro dell’azienda con l’ausilio di buoi o asini.

Spesso però l’operatore era un contoterzista ed allora, anche nel caso di fitto a giornata, la macchina doveva spostarsi dalla tenuta di un contadino a quella di un altro e quindi l’asina o la vacca erano funzionali all’imballatrice e venivano utilizzati per il trasporto a traino della stessa. In tal caso le ruote erano quasi sempre due ma potevano essere anche quattro e quando si procedeva ad imballare, in qualche caso venivano smontate. Nelle imballatrici che avevano ruote con asse eccentrico bastava ruotare l'asse e le ruote salivano mentre tutta l'imballatrice poggiava a terra.

Ultimo aggiornamento Mercoledì 27 Maggio 2009 22:59
 
LOMBARDINI Reggio Emilia PDF Stampa E-mail
Scritto da Gianfranco Tardioli   
Mercoledì 18 Febbraio 2009 15:59
Nel 1924 due amici di Novellara, Pietro Slanzi e Adelmo Lombardini si mettono insieme per costruire motori per uso agricolo e industriale, dopo 7 anni decidono di dividersi, Slanzi resta a Novellara, e Lombardini si sposta a Reggio Emilia, dove prende la rappresentanza della Slanzi per il centro sud italia, fino al 1933 quando fonda una propria azienda sempre per la costruzione di motori. Nel 1950 Lombardini costruisce un piccolo trattore a petrolio chiamato TL8 e due modelli a ruote con motore Diesel chiamati TL30  e  TL40, negli anni 60 la Lombardini smette di costruire trattori per dedicarsi interamente ai motori.
 
LESA Reggio Emilia PDF Stampa E-mail
Scritto da Gianfranco Tardioli   
Mercoledì 18 Febbraio 2009 15:49
Nel 1948 a Reggio Emilia Alceo Leoni e Nello Salsapariglia, aprono un officina meccanica per le riparazioni, il lavoro non manca , ma nei due nasce la voglia di costruire qualcosa di proprio, e nel 1950 nasce la LESA, cioe' Leoni e Salsapariglia, con l'intento di costruire trattori.  Nel 1951 esce il primo trattore, chiamato Falco, costruito utilizzando residuati bellici, e un motore Slanzi. man mano i residuati finiscono, e la ditta nel 1954 decide di progettare e costruire interamente un modello nuovo chiamato Titano C, che fa decollare le vendite, nel 1964 l'attivita' viene ceduta alla ditta Corghi, e nel 1965 la societa' Lesa viene sciolta. 
 
LANDINI , Fabbrico RE PDF Stampa E-mail
Scritto da Gianfranco Tardioli   
Mercoledì 18 Febbraio 2009 11:06

Giovanni Landini, a 25 anni apre a Fabbrico, una bottega di meccanico riparatore e costruttore di macchine enologiche, viene chiamato spesso a fare manutenzione e riparazione delle prime trebbie e locomobili presenti nella zona, si impossessa di un esperienza tale che gli permette di costruirsi una locomobile in proprio, da abbinare ad una trebbia per avviare un attivita' per conto terzi. Negli anni 10 costruisce il suo primo motore fisso testacalda, nel 1924 Giovanni Landini muore, e l'attivita' e' rilevata dai figli Archimede, Aimone e James, l'anno dopo la scomparsa del padre, vedra' la luce il primo prototipo di trattore con motore testacalda, di 25 - 30 cavalli. Nel 1932 il 30 viene sostituito dal modello 40 piu' potente, questo servira' come base per il lancio nel 1934 del modello di maggior successo della casa, il SuperLandini, negli anni successivi lo seguiranno i vari modelli, Velite, Bufalo ( con poco successo ) L 25, L 45,  L35,  L 55, e altri modelli sviluppati sulla base dei precedenti, fino al 1960 quando James, ultimo erede rimasto sigla un accordo con la multinazionale Massey Ferguson, che permette ancora oggi di far sventolare la bandiera azzurra Landini su Fabbrico.

 

Superlandini
Superlandini
Superlandini

Trattore testacalda SuperLandini modello del 1934 costruito nel 1947. Questo esemplare proviene dalla provincia di Agrigento.

Trattore testacalda Landini Velite costruito nel 1936, prima serie con tappo del radiatore a vite,ruote in fusione, macchina conservata, ha svolto la maggior parte del suo lavoro nelle paludi Pontine, attaccato ad una pompa.

Trattore testacalda Landini L 45 con sollevatore ad aria Longhini puleggia e pdfcostruito nel 1952.

Ultimo aggiornamento Sabato 24 Ottobre 2009 22:30
 
LAMBORGHINI Cento FE PDF Stampa E-mail
Scritto da Gianfranco Tardioli   
Mercoledì 18 Febbraio 2009 10:38
Ferruccio Lamborghini nasce nel 1916 a Renazzo in provincia di Ferrara, appassionato di meccanica frequenta le scuole tecniche, finita la guerra apre un officina di meccanico, e nel 1949 costruisce la sua prima carioca, con pezzi di recupero.  Dopo una breve esperienza in societa' con Carassini e Guazzaloca, si mette in proprio, e costruisce il trattore L 33, che e' il trampolino di lancio per altri 4 modelli che usciranno nel 1952, Lamborghini costruira' trattori in proprio fino al 1972, quando il marchio entra a far parte del gruppo Same Deutz Fahr.
 
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